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La Repubblica di Alba (1796): un effimero esperimento rivoluzionario

Pubblicato il 01 June 2025

 

Contesto storico: il Piemonte nella campagna d’Italia di Napoleone

Alla metà degli anni 1790 il Piemonte (allora parte del Regno di Sardegna sotto la dinastia Savoia) era coinvolto nelle guerre contro la Francia rivoluzionaria. Il governo monarchico piemontese aveva aderito alla Prima Coalizione antifrancese e il territorio subalpino era attraversato da tensioni politiche e sociali. Tuttavia, le idee della Rivoluzione Francese – libertà, eguaglianza, repubblica – avevano già attecchito tra i ceti intellettuali e borghesi piemontesi. Dal 1793 si erano formati circoli giacobini clandestini a Torino e in altre città: figure come Ignazio Bonafous (mercante albese) sostenevano apertamente che la repubblica fosse più vantaggiosa della monarchia per il progresso economico e civile, scontrandosi con le autorità sabaude e il clero locale ostile ai Francesi . Nonostante la repressione (Bonafous fu condannato a morte in contumacia nel 1795 e costretto all’esilio ), un nucleo di patrioti piemontesi continuò a cospirare ispirandosi al modello francese.

 

Parallelamente, molti esuli politici italiani (piemontesi, toscani, napoletani) si riunirono in territorio francese – ad Oneglia e Nizza – sotto la protezione del rivoluzionario Filippo Buonarroti. In questi ambienti cosmopoliti maturò per la prima volta l’idea di un’Italia unita e repubblicana: nel 1795 gli esuli elaborarono un “Progetto di governo rivoluzionario ossia repubblicano provvisorio per il Piemonte”, con l’obiettivo di aiutare l’armata francese liberatrice in cambio di un impegno della Francia a sostenere l’unità italiana . Questo fermento prefigurava già il tema del Risorgimento, decenni prima che il movimento unitario si affermasse apertamente.

 

In questo contesto, la Francia rivoluzionaria – governata dal Direttorio – lanciò la campagna d’Italia sotto il comando del giovane generale Napoleone Bonaparte. Nell’aprile 1796 Napoleone travolse rapidamente le forze austro-piemontesi nella serie di scontri nota come battaglia di Montenotte, Millesimo, Dego e Mondovì. Dopo queste vittorie (11–21 aprile 1796), l’armata francese sfondò le difese sabaude e dilagò in Piemonte . Il re Vittorio Amedeo III, colto di sorpresa, dovette trattare un armistizio. Fu in quei giorni convulsi, con le truppe francesi in avanzata e l’autorità sabauda vacillante, che i patrioti locali decisero di passare all’azione.

 

 

Giovanni Antonio Ranza: un prete giacobino e le sue idee politiche

 

 

Tra i protagonisti dell’ondata rivoluzionaria piemontese spicca Giovanni Antonio Ranza. Nato a Vercelli nel 1741, Ranza era un sacerdote e professore di lettere animato da vivaci interessi intellettuali. Allo scoppio della Rivoluzione francese abbracciò con convinzione i nuovi principi, pur coltivando l’aspirazione di conciliarli con la tradizione cristiana. Prese parte ai circoli giacobini piemontesi sin dalle prime cospirazioni: organizzò un tentativo di sollevazione a Vercelli (poi scoperto e sventato) e dovette fuggire prima in Svizzera e poi in Francia . Nel 1793, durante il suo esilio, fondò a Losanna un periodico politico-letterario bilingue, il Monitore Italiano, in cui auspicava un’alleanza tra francesi e piemontesi contro l’Austria e propagandava idee repubblicane.

 

Ranza incarna la figura del prete patriota: auspicava un ritorno della Chiesa alla purezza evangelica e vedeva possibile una riconciliazione tra i valori del cristianesimo e quelli della Rivoluzione . Al tempo stesso, il suo pensiero politico presentava sfumature originali. Influenzato dai philosophes e dai fisiocratici francesi, Ranza riteneva ad esempio che il pieno diritto di cittadinanza dovesse spettare solo ai proprietari terrieri (un’idea moderata rispetto all’egualitarismo radicale di altri giacobini) . Soprattutto, Ranza fu un precursore del nazionalismo italiano: già negli anni 1793-94 immaginava la creazione di una Repubblica Piemontese indipendente come primo passo verso una Repubblica Italiana unita . Egli proponeva uno schema federale: pensava a una confederazione di repubbliche italiane autonome (includendo non solo la penisola ma anche il Canton Ticino, la Corsica e persino Malta), federate in un unico stato con politica estera e militare comune . Nel 1796 partecipò a un concorso di idee indetto a Milano dal governo francese, rispondendo alla domanda “Quale tra i governi liberi meglio si confà alla felicità d’Italia?” con un progetto dettagliato di confederazione italiana e un’assemblea generale da tenersi a Pisa . Le sue proposte – poi raccolte nel pamphlet Vera idea di federalismo (1797) – riprendevano il filone federalista illuminista (Genovesi, Galeani Napione) e anticipavano discussioni che riemergeranno nel dibattito risorgimentale.

 

Idealista ma pragmatico, Ranza capì che l’occasione per mettere in pratica i suoi ideali sarebbe giunta solo con l’arrivo delle baionette francesi. Nel 1796 si trovava al seguito dell’armata d’Italia napoleonica, pronto a rientrare in patria assieme alle truppe liberatrici. “Era il momento di rompere le catene che ci legano da tanto tempo”, scriveranno Ranza e Bonafous al generale Bonaparte . La fulminea avanzata di Napoleone offriva la chance di rovesciare il governo sabaudo: Ranza non esitò a coglierla, divenendo il teorico e animatore politico dell’esperimento rivoluzionario albese.

 

 

La proclamazione della Repubblica di Alba

 

 

Il 26 aprile 1796 le avanguardie francesi comandate dal generale Andrea Massena e dal generale Charles Augereau entrarono nella città di Alba, nel Basso Piemonte, dopo aver sconfitto l’esercito sabaudo a Mondovì pochi giorni prima. Le truppe piemontesi si erano ritirate, lasciando Alba praticamente indifesa . Proprio in quelle ore, anticipando di poco l’arrivo dei francesi, i patrioti locali attuarono il loro piano: Ignazio Bonafous (originario di Alba) e Giovanni Antonio Ranza fecero ingresso in città, presero contatto con i notabili simpatizzanti e convinsero la comunità ad insorgere. In fretta e furia venne convocato il consiglio cittadino e dichiarata decaduta l’autorità del re. Fu così proclamata la Repubblica di Alba, la prima repubblica giacobina sul suolo italiano . Era un governo rivoluzionario locale – definito “municipalità rivoluzionaria” – destinato, nelle speranze degli organizzatori, a fungere da nucleo embrionale di una futura Repubblica Piemontese (e magari Italiana) più ampia . Bonafous assunse la carica di maire (sindaco) della nuova repubblica, mentre Ranza divenne segretario del governo provvisorio . Il generale Augereau, comandante francese sul posto, si mostrò benevolmente tollerante verso l’iniziativa dei patrioti locali, vedendovi un utile supporto politico all’occupazione militare .

 

Sin dal primo giorno la neonata repubblica adottò i simboli rivoluzionari tipici importati dalla Francia. Si innalzò in piazza il “albero della libertà”, ovvero un albero (di solito un pioppo) addobbato con nastri e simboli repubblicani, sull’esempio delle feste rivoluzionarie francesi. A tale cerimonia partecipò entusiasta anche il vescovo locale: il cronista ricorda che fu cantato persino un Magnificat in Duomo per celebrare la libertà, fatto insolito che suscitò la derisione dei commissari francesi più intransigenti . La municipalità adottò inoltre una bandiera tricolore: Ranza stesso disegnò il vessillo della Repubblica di Alba . A differenza del futuro tricolore italiano verde-bianco-rosso, la bandiera albese aveva i colori rosso, blu e arancione, ricchi di richiami simbolici. Il rosso e il blu erano un omaggio diretto alla bandiera della Francia rivoluzionaria, segno di fratellanza con la Grande Nation. L’arancione, invece, ricordava l’arancia, frutto che in quegli anni era diventato un curioso emblema di libertà (pare derivasse dall’albero d’arancio piantato nelle cerimonie repubblicane francesi e associato alla dolcezza della libertà) . Questa combinazione cromatica verrà poi chiamata “tricolore di Alba” e rimane ancor oggi nei colori ufficiali del gonfalone della Regione Piemonte . Nonostante i colori differenti, l’idea di un tricolore repubblicano anticipava il futuro tricolore italiano; non a caso proprio nel 1796-97 altri patrioti padani adotteranno la coccarda verde-bianca-rossa, preludio della bandiera nazionale.

 

Oltre alla bandiera e all’albero della libertà, il governo provvisorio emanò subito proclami rivoluzionari. Bonafous e Ranza firmarono tre manifesti a nome dei “commissari del popolo” di Alba . Il primo era indirizzato “al popolo Piemontese e Lombardo” e lo incitava a insorgere contro i tiranni seguendo l’esempio di Alba. Il secondo era rivolto ai soldati piemontesi (subalpini) e napoletani che combattevano ancora a fianco degli austriaci in Lombardia, esortandoli a disertare e unirsi alla causa della libertà . Il terzo appello era dedicato addirittura ai parroci del Piemonte e della Lombardia , chiedendo loro di sostenere il nuovo ordine repubblicano – un tentativo di guadagnare il favore della popolazione cattolica, in netto contrasto con l’anticlericalismo giacobino intransigente. In città si formò anche una Guardia Nazionale cittadina e si requisirono risorse per sostenere lo sforzo bellico: vennero imposte contribuzioni forzose ai comuni vicini. Alcune comunità dei dintorni (Guarene, Corneliano d’Alba, Castagnito) si affrettarono ad aderire e pagare tali contributi alla repubblica, mentre altre (Sommariva Perno, Vezza, Canale) opposero resistenza e rifiutarono di riconoscere il nuovo regime . Ciò dimostrava come l’entusiasmo rivoluzionario non fosse affatto unanime nel territorio: accanto ai patrioti giacobini esisteva una larga fetta di popolazione fedele al re e diffidente verso i francesi.

 

Nonostante queste difficoltà, per alcuni giorni Alba visse un’atmosfera euforica da “piccola repubblica” liberata. Testimoni raccontano di bandiere repubblicane esposte, bande militari francesi che suonavano la Marsigliese nella piazza principale e di un fervore patriottico che animava comizi e celebrazioni pubbliche. La Repubblica di Alba, nei progetti dei suoi fondatori, avrebbe dovuto fungere da “avamposto per l’unificazione dell’Italia e la diffusione degli ideali di libertà portati dalla Francia” . In altre parole, Bonafous e Ranza speravano che l’esempio di Alba avrebbe innescato una rivoluzione a catena in tutto il Piemonte e oltre. Si trattava, evidentemente, di un progetto ambizioso e forse velleitario, ma in linea con l’entusiasmo messianico che la Francia rivoluzionaria suscitava in molti patrioti italiani dell’epoca.

 

 

Una repubblica effimera: il crollo dopo dodici giorni

 

 

L’entusiasmo iniziale dovette fare i conti con la dura realtà della strategia di Napoleone e con la situazione politico-militare. Fin dall’inizio, Bonaparte guardò con un certo scetticismo all’esperimento albese. Se da un lato gli faceva comodo il supporto dei giacobini locali, dall’altro Napoleone era consapevole che il Piemonte non era ancora maturo per una rivoluzione generalizzata. Il generale corso aveva obiettivi principalmente militari: battere gli austriaci e conquistare la Lombardia. Aprire un fronte politico interno in Piemonte poteva essere controproducente, soprattutto perché il Direttorio di Parigi gli aveva ordinato di concludere rapidamente la pace con il re sabaudo. In una lettera al Direttorio, Napoleone dipinse i piemontesi come politicamente impreparati e consigliò di “non contare su una rivoluzione in Piemonte” . I commissari francesi come Cristoforo Saliceti (inviato del Direttorio presso l’armata d’Italia) riferirono che il popolo piemontese era ancora troppo legato al Re e alla Chiesa per appoggiare in massa i giacobini . Emblematico è l’episodio del 1º maggio 1796 ad Alba: durante una cerimonia sotto l’albero della libertà, dopo un infiammato discorso di Ranza in cui persino il vescovo cantò il Magnificat in onore della rivoluzione, il commissario Saliceti si mise a ridere di fronte a quella scena ingenua. Commentò sarcasticamente che “gli ingenui repubblicani albesi” pensavano di fare la rivoluzione cantando inni sacri, mentre per riuscire davvero avrebbero dovuto piuttosto “illuminare” – cioè dare alle fiamme – i castelli feudali . Questo aneddoto, oltre a evidenziare la differenza di mentalità tra giacobini italiani (più moderati e religiosi) e francesi (più laici e radicali), segna il presagio della fine imminente dell’esperimento albese.

 

Già il 28 aprile 1796, appena due giorni dopo la proclamazione della repubblica, Napoleone Bonaparte aveva concluso con il Regno di Sardegna l’Armistizio di Cherasco. L’armistizio, firmato a Palazzo Salmatoris di Cherasco, impose al re sabaudo dure condizioni: egli dovette cedere ai francesi le fortezze di Ceva, Cuneo, Tortona e Alessandria, oltre a garantire il libero passaggio alle truppe francesi sul suo territorio . In cambio, però, Bonaparte lasciava Vittorio Amedeo III sul trono e non pretendeva cambi di regime a Torino. Alba, trovandosi geograficamente sulla riva sinistra del fiume Tanaro entro l’area occupata dai francesi, rimase in un primo momento sotto controllo militare francese. Tuttavia, l’armistizio segnò di fatto la fine del sogno repubblicano locale: “la repubblica ebbe vita breve”, commentano le cronache, poiché con Cherasco il re recuperava il possesso di Alba e dei territori circostanti .

 

Nei giorni successivi, le autorità francesi – per attuare gli accordi con i Savoia – iniziarono a smantellare la municipalità giacobina albese. Il 4 maggio 1796 Bonaparte inviò ad Alba il generale Jean Sérurier con istruzioni precise: ristabilire un’amministrazione neutrale e rassicurare il re sul rispetto dell’armistizio . Sérurier sciolse il governo rivoluzionario e reintegrò nel consiglio comunale sette membri del precedente consiglio cittadino (di nomina regia) . Bonafous poté formalmente mantenere la carica di maire, ma sia lui che gli altri esponenti repubblicani furono obbligati a prestare atto di sottomissione alla Repubblica francese . Ciò significava che Alba non era più una repubblica autonoma, ma semplicemente un territorio sotto occupazione militare francese in attesa di restituzione. In questo modo veniva “sancita la fine della repubblica di Alba” . La vertiginosa repubblica – come fu definita in seguito – si era esaurita nel giro di pochissimi giorni.

 

Gli irriducibili patrioti piemontesi tentarono un ultimo gesto di resistenza politica: sempre il 4 maggio, gruppi di giacobini italiani (piemontesi e napoletani) affluiti al seguito dell’armata francese si precipitarono ad Alba per protestare contro lo smantellamento della repubblica . Con l’appoggio di Bonafous e Ranza cercarono di convincere il restaurato consiglio municipale a proclamare nuovamente l’indipendenza e a rifiutare l’armistizio. Ma la maggioranza dei notabili cittadini – già scottata dagli eventi e timorosa di rappresaglie – si oppose fermamente. Il giorno successivo (5 maggio) il consiglio fece anzi atto di fedeltà a Napoleone, confermando che il gioco era ormai concluso . Un paio di settimane più tardi, il 15 maggio 1796, fu firmato il Trattato di Parigi tra Francia e Regno di Sardegna: esso confermò la pace, cedette ufficialmente la Savoia e Nizza alla Francia e prevedeva la graduale evacuazione francese del resto del Piemonte. Di conseguenza, entro il 19 giugno 1796 la città di Alba fu riconsegnata definitivamente alle autorità sabaude .

 

Per i patrioti locali fu l’ora della resa dei conti. Ignazio Bonafous, che si era rifugiato nei suoi possedimenti agricoli, venne catturato dai gendarmi piemontesi malgrado si trovasse formalmente in zona di occupazione francese . Tradotto nelle carceri di Torino, rischiava l’esecuzione poiché su di lui pendeva ancora la condanna a morte del 1795. Disperato, Bonafous scrisse al re Vittorio Amedeo III una lettera in cui rinnegava le proprie attività rivoluzionarie e si dichiarava pronto a “pentirsi” e a servire fedelmente il governo sabaudo . Era un atto di abiura umiliante ma comprensibile nel tentativo di evitare il patibolo. In effetti Bonafous ottenne salva la vita: grazie anche all’intercessione delle autorità francesi occupanti, fu rilasciato e riuscì a riparare di nuovo presso l’armata di Napoleone . Giovanni Antonio Ranza, più accorto, lasciò Alba prima di rischiare l’arresto: subito dopo l’armistizio di fine aprile si spostò a Milano, al seguito delle truppe francesi, portando in salvo la propria persona e le proprie idee . Molti altri giacobini piemontesi seguirono la stessa strada, confluendo nelle zone ormai liberate dagli austriaci (Lombardia ed Emilia) dove sarebbero nati a breve nuovi governi repubblicani sotto protezione francese.

 

 

L’eredità simbolica e politica della Repubblica di Alba

 

 

La Repubblica di Alba durò in totale meno di due settimane – dal 26 aprile ai primi di maggio 1796 – e fu quindi un episodio effimero, quasi una nota a piè di pagina nella grande storia delle guerre napoleoniche. Dal punto di vista militare e geopolitico immediato, essa non ebbe peso: Napoleone la sacrificò senza rimpianti sull’altare della ragion di stato, preferendo assicurarsi la neutralizzazione del Piemonte attraverso l’armistizio con il re, invece di appoggiare una rischiosa rivoluzione locale. Eppure, nonostante il suo fallimento pratico, l’esperimento albese assunse un significato simbolico notevole nella storia del patriottismo italiano. Gli storici la ricordano come la prima repubblica giacobina italiana , un precoce segnale che anche nella penisola stava germogliando il seme del cambiamento portato dalla Rivoluzione francese. In un’Italia ancora divisa in monarchie e stati regionali, Alba rappresentò un lampo fugace di autodeterminazione popolare e di unità nazionale ante litteram.

 

I protagonisti e i sostenitori di quella breve avventura non abbandonarono i loro ideali. Giovanni Antonio Ranza, stabilitosi a Milano, riprese la sua attività pubblicistica dirigendo il giornale L’amico del popolo italiano e partecipando alla vita politica della neonata Repubblica Cisalpina (la repubblica sister nata in Lombardia sotto la protezione francese) . Anche Bonafous, sebbene scottato e ridotto al silenzio per qualche tempo, tornò in Piemonte dopo la definitiva occupazione francese del 1800 e fu annoverato tra i “martiri” patrioti piemontesi degli anni rivoluzionari . Molti ex-giacobini piemontesi confluirono poi nella Repubblica Piemontese (detta anche Subalpina) instaurata dai francesi a Torino nel 1798, e più in generale costituirono una prima generazione di patrioti italiani attivi durante il triennio 1796-1799. La stessa bandiera tricolore albese rosso-blu-arancio fu ufficialmente adottata (almeno sulla carta) dal governo provvisorio piemontese nel luglio 1800 come vessillo e coccarda del nuovo Piemonte repubblicano . In realtà quel governo durò poco e il Piemonte venne annesso direttamente alla Francia nel 1802; ciononostante, il gesto sottolinea la continuità ideale con l’esperienza di Alba. Non è un caso che oggi il Piemonte ricordi ancora quei colori sul proprio gonfalone regionale, a testimonianza di una tradizione di libertà locale.

 

Sul piano del pensiero patriottico italiano, la Repubblica di Alba rappresentò un banco di prova e un’anticipazione di temi che sarebbero riemersi decenni più tardi nel Risorgimento. L’idea di un’Italia unita, repubblicana o comunque costituzionale, trovò nei giacobini di fine Settecento i suoi primi apostoli. Personaggi come Ranza e Bonafous – pur operando in un contesto differente – possono essere visti come precursori dei patrioti risorgimentali. Essi introdussero nel dibattito politico italiano il concetto di “patria” intesa non solo come fedeltà al sovrano locale, ma come appartenenza culturale e ideale a un’intera nazione italiana. Le società segrete e i circoli liberali dei decenni successivi (dai Carbonari alla Giovine Italia mazziniana) ereditarono anche la memoria delle lotte precedenti: sapevano che già nel 1796 un pugno di uomini in Piemonte aveva cercato di “liberare la patria dalle catene” . Certo, nel 1796 il popolo piemontese si mostrò in gran parte apatico o contrario – troppo forte era ancora il legame verso il re e la diffidenza verso i francesi – ma le idee seminate allora avrebbero dato frutto col tempo.

 

Infine, l’eredità della Repubblica di Alba vive anche nel ricordo storico locale. La città di Alba, a distanza di anni, non dimenticò quell’episodio: durante il Risorgimento e oltre, gli albesi guardarono con un certo orgoglio a quel momento in cui la loro città era stata, sia pur brevemente, “libera e indipendente”. Lo testimonia ad esempio l’attenzione dedicata dalla storiografia locale: ancora oggi ad Alba si parla di quei fatti, si pubblicano articoli sulla Gazzetta d’Alba e si celebrano i protagonisti con targhe e intitolazioni . Persino durante la Seconda Guerra Mondiale, quando nell’ottobre 1944 i partigiani liberarono Alba dai nazifascisti, vollero chiamare quella breve esperienza “Repubblica partigiana di Alba”, riecheggiando intenzionalmente il nome della repubblica giacobina del 1796. Un segno che il mito di Alba 1796 – il primo tricolore, il primo albero della libertà, il primo sogno repubblicano italiano – era ormai entrato nell’immaginario patriottico nazionale.

 

In conclusione, la Repubblica di Alba del 1796 fu un episodio di grande valore simbolico. Pur nata in circostanze contingenti e spente nel giro di pochi giorni da superiori ragioni strategiche, essa rappresentò l’alba (nomen omen) di una nuova era: l’idea che anche in Italia si potessero abbattere troni secolari e costruire uno stato fondato su principi di libertà e unità nazionale. Quel tentativo prematuro fu l’antesignano delle repubbliche sorelle napoleoniche e, idealmente, di tutto il successivo movimento risorgimentale italiano. Come riconobbe uno storico, la “vertiginosa repubblica” di Alba non fu vana: lasciò dietro di sé un’eredità di idee e di esempi che avrebbero continuato a ispirare gli italiani sulla lunga strada verso l’indipendenza e l’unità . La sua bandiera tricolore e il suo albero della libertà continuano a ricordarci che già nel 1796, all’ombra delle colline delle Langhe, qualcuno sognò un’Italia libera, e per dodici giorni provò perfino a realizzarla.

 

Fonti: Enciclopedia Treccani, Wikipedia e archivi storici locali .

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